di Clarice Tartufari
Una rapida, improvvisa folata di vento trasvolò con impeto al dissopra della campagna e tutte le cose, che parevano morte nel tedio di quel pomeriggio autunnale, furono scosse da un brivido lungo, quasi pauroso, mentre il velo fosco delle nubi, violentemente squarciato, si ornava per un attimo di bizzarri fregi luminosi.
Flora, supina presso il tronco contorto di una quercia secolare, rimaneva immobile, con le braccia ripiegate ad arco dietro la testa e con una espressione di godimento intenso diffusa per ogni tratto del volto ancora infantilmente attonito e giulivo.
Perchè aguzzava essa lo sguardo dei profondi occhi cerulei a interrogare il cielo che scendeva sempre più in basso, quasi a toccare la cima degli ulivi, aggruppati a sinistra, verso la collina? Cosa cercava ella al di là delle nubi, che si accavallavano, si sospingevano, si addensavano, si stringevano, si confondevano in mobili montagne sempre più gigantesche, sempre più tetre? Perchè tendeva essa l’orecchio a seguire l’urlo del vento, che, dopo avere scosso i rami degli alberi rabbiosamente, s’insinuava, strisciando furtivo, tra le foglie del canneto?
Quale fantasma attendeva ella che scendesse verso lei dalle nubi o di quale canzone seguiva la eco in mezzo ai sibili del vento?
Flora non attendeva nulla, non ascoltava nulla. A lei bastava di sentirsi vivere.