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Storie di Natale

di AAVV storie-di-natale

Sette scrittori si misurano con la festività più attesa. Sarà un Natale pieno di sorprese.

Una grande conchiglia sonante è il simbolo del Natale di Tridicino, pescatore di Vigàta, nella storia di Andrea Camilleri, decisamente miticomediterranea, in contrasto con lo spirito fiabesco e invernale. Anche i racconti che seguono parlano di Natali straordinari, e fuori dai migliori (o dai peggiori e più comuni) sentimenti, immaginati da alcuni tra i più originali scrittori del momento.
Quello di Giosuè Calaciura è forse un racconto morale sulla diversità e la sua conciliante poesia. Antonio Manzini, intreccia una Vigilia beffarda ai danni di un poveraccio vittima dell’ingiustizia, di classe, dell’amore. L’eroe natalizio di Fabio Stassi è un detenuto in trasferimento verso un’isola. In un laboratorio misterioso nel mare greco si svolge l’avventura onirico virtuale inventata da Francesco Cataluccio.
Il pranzo di Natale nell’autogrill isolato nella neve è comico assurdo e cinicamente ironico, specchio autentico dell’umanità come è per Francesco Recami. Alicia Giménez-Bartlett rappresenta un Natale borderline, claustrofobico, come può essere quello con la sola compagnia casuale di una fanatica religiosa.
Così Storie di Natale forma un campionario molto vario delle versioni possibili del classico racconto: un Natale che persiste perché non può che resistere nel desiderio di ognuno, ma si sfilaccia, si deforma, si modella sulle vite d’oggi.

Titolo: Storie di Natale
Autore: AAVV
Editore: Sellerio
N° pagine: 304
Genere: raccolta di racconti
Costo cartaceo: 14,00
Costo ebook: 9,99
EAN: 9788838935718

L'altro capo del filo

di Andrea Camilleri

La nuova indagine del commissario Montalbano. A Vigàta si susseguono gli arL'altro capo del filorivi di migranti e tutto il paese è coinvolto nel dare aiuto. Il commissario e i suoi uomini non si risparmiano. Poi una notte mentre Montalbano è al porto per il consumarsi di una ennesima tragedia del mare, un’altra tragedia lo trascina via dal molo: nella più rinomata sartoria del paese è stata ritrovata la sarta Elena trucidata a colpi di forbici.

Una pagina tira l’altra. Eppure la lettura non può che scorrere con lentezza. C’è troppo dolore, c’è troppa disperazione, nel paesaggio di realtà che si va ad attraversare. Il mare è diventato una enorme fossa comune, il teatro acquatile di una immane tragedia di naufraghi: il quadrante acheronteo di violenze, lo specchio deforme attraversato dai fantasmi di quanti hanno sperato nella salvezza della fuga, sebbene pagata con la spoliazione e con gli abusi, con l’urlo raggelato delle madri e il pianto muto dei bambini che non sanno come decifrare l’orrore che si è disegnato nei loro occhi. Con quanta velocità è concesso di leggere la lentezza della sacra rappresentazione dell’esodo di una umanità straziata, tradita dalla storia e offesa dalle politiche del sospetto e dell’egoismo? A Vigàta, Montalbano è impegnato nella gestione degli sbarchi, nei soccorsi ai migranti, nello smascheramento degli scafisti. Ha la collaborazione del commissariato, di vari volontari, e di due traduttori di madrelingua. Si prodigano tutti. Si sacrificano, tra tenacia e spossatezza. Catarella si intenerisce, si infervora, e mette a disposizione delle operazioni caritatevoli la sua innocente quanto fragorosa rusticità. Il lettore procede, compunto, con il passo del pellegrino. E non si accorge che dietro le pagine si sta armando un romanzo perfettamente misterioso. Persino Montalbano viene colto di sorpresa. L’arrivo felpato del delitto gli dà il soprassalto. Si ritrova all’improvviso con un «gomitolo» in mano, inestricabile, che pretende di interagire con i suoi sogni abitati in quei giorni da gatti arruffati, pronti alla zampata, o che con negligente sicurezza giocano a liberare il bandolo di una palla di filo. In questo romanzo, che sempre più illividisce, anche gli oggetti stanno in agguato. E i dettagli appaiono foschi; e tali da darsi in associazioni del tutto imprevedibili. È stata trucidata una sarta, vedova, che la comunità vigatese rispetta per la sua bellezza portata con garbo e semplicità; e per la misurata riservatezza della sua vita. Ha avuto sì amori clandestini, ma placidi e sommessi, contornati di tenace amicizia o di domestica cordialità. Lo sgomento è generale. Persino l’ispido medico legale, Pasquano, si ammorbidisce davanti a un omicidio così inspiegabile.
Montalbano si isola nell’architettura di silenzio del luogo del delitto. Stenta ad afferrare un’intuizione, che scivolosa gli serpeggia nel pensiero. Stenografa mentalmente le sue sensazioni. Le ricompone in uno spettacolo mentale che fa scorrere come un film. Agguanta alla fine la supposizione. Le reliquie, sopravvissute al passaggio tumultuoso dell’ombra assassina, portano all’evidenza di quel sudario di memorie dentro il quale la vittima si era cucita in complicata e generosa solitudine; e conducono alla soluzione del giallo.

Titolo: L’altro capo del filo
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio
numero pagine: 320
costo cartaceo: 14,00
Costo ebook: 9,99
EAN 9788838935169

La banda Sacco

di Andrea Camilleri

«Penso che il caso sia unico nella storia giudiziaria italiana pur così pesante di capitoli sciagurati» (Umberto Terracini).

Raffadali, provincia di Agrigento, anni Venti del Novecento. I fratelli Sacco sono uomini liberi, di idee socialiste, hanno il senso dello Stato, si sono fatti da sé seguendo l’esempio del padre Luigi che li ha allevati nella cultura del lavoro e del rispetto degli altri. La vita cambia quando una mattina il capofamiglia riceve una lettera anonima, poi un’altra, poi subisce un tentativo di furto. Luigi Sacco denunzia le richieste estortive ai carabinieri, che però si trovano disorientati: nessuno in paese ha mai osato denunziare la mafia. Da quel momento i Sacco dovranno difendersi. Dalla mafia e dalle forze dell’ordine, dai paesani complici, dai traditori, dai maggiorenti del paese tra tentativi di omicidio, accuse false, testimonianze bugiarde.

«Ma c’era la mafia» – «Eccome, se c’era!»: a chiusura di capitolo e, a seguire, subito dopo, ad apertura di capitolo, come in una ntruccatura, in una concatenazione tra ottave siciliane. La sensazione è quella di una voce che racconta, sgraffiando le parole nell’aria e modulandole alla maniera di un cantastorie che, sul prospetto di un cartellone dipinto, va narrativizzando, riquadro dopo riquadro, la declamazione larga e sonora della vicenda. Ed è dentro questa simulazione di un genere popolare che si aggiorna il modello giudiziario della manzoniana Storia della Colonna Infame, con il suo andar contro le inchiostrature del romanzesco e porsi dietro il dorso delle cose, mescolando racconto e riflessione, dettagli e postille critiche: sempre stringendosi ai fatti, interrogando le contraddizioni dei «documenti», siano essi forniti dalle confessioni estorte con i ricatti e le violenze, dalle deposizioni dei presunti testimoni, da un memoriale, o dai risultati processuali; nella convinzione che la verità sfugge dietro l’angolo e viene affatturata dagli accusati che si fanno accusatori, dai causidici, dai metodi d’indagine talvolta barbarici, dal disporsi della giustizia da una parte e della politica dalla parte opposta.

Costante è, in questo racconto reale, il paesaggio di una Sicilia rurale: le pietraie, le fratte rocciose, i pascoli; la magia botanica dei pistacchieti con i loro fiori unisessuali, le promesse di notti arabe del sambuco che tra le foglie nasconde le cantaridi, le cantilene degli stagionali che hanno già attraversato le scene «campestri» di Pirandello. All’inizio, nel secondo Ottocento, c’è il patriarca Luigi Sacco, bracciante d’ingegno e passione. Vengono poi i discendenti, grandi lavoratori tutti, e socialisti, tra emigrazione transoceanica e chiamata alle armi nella Grande Guerra, malversazioni e canaglierie di rozzi capimafia con alle spalle pupari altolocati, che prosperano nella latitanza dello Stato e sanno come avvantaggiarsi nella tragica notte del fascismo, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori (e grazie ad esso, anzi) che seppe abbattersi anche sui comuni oppositori politici. I cinque fratelli Sacco conoscono la disperazione a vivere in un regime di mafia. Si danno alla latitanza. Si sentono investiti di un ruolo di supplenza nella lotta (armata) contro i persecutori mafiosi. Diventano giustizieri solitari, nel silenzio ottuso dell’omertà: cittadini eslègi di uno Stato che non ha saputo garantirli. Vengono arrestati, processati, e inventati come «banditi» e predoni d’assalto. In carcere conoscono l’antifascismo. Incontrano Umberto Terracini e incrociano Gramsci.

Il succo della storia, di questo western nostrano di onest’uomini indotti e costretti a farsi vendicatori, è di declinazione manzoniana: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi». Salvatore Silvano Nigro

Un covo di vipere

di Andrea Camilleri

Sognando, Montalbano è entrato in un sogno dipinto da Rousseau il Doganiere. Si è ritrovato, insieme alla fidanzata Livia, nel respiro di luce e nella convivenza innocente di un’edenica foresta. Gli intrusi riconoscono il luogo solo grazie a un cartello inciso a fuoco. Sono nudi. Ma portano addosso l’ipocrisia di foglie di fico posticce, fatte di plastica. L’armonia dell’eden, la sua mancanza di volgarità e violenza, è una finzione pittorica. Non appartiene a nessun luogo reale. E neppure ai sogni. Ciononostante, anche nella cieca e brutale realtà può sopravvivere la delicatezza del canto discreto e cortese di un uccello del paradiso saltato giù dai rami dipinti o sognati. Montalbano viene svegliato dal fischiettare di un garbato vagabondo che intona Il cielo in una stanza, con «alberi infiniti», imponendosi sul fracasso di un temporale.

La filologia congetturale del commissario deve applicarsi al fondo torbido e malsano di esistenze nascoste e incarognite dal malamore, dagli abusi e dalle sopraffazioni, dalla crudeltà e dalla sordidezza, dalle ritorsioni e dai ricatti, dalla gelosia e dal rancore: non meno che dall’interesse. Il ragioniere Cosimo Barletta, sciupafemmine compulsivo e strozzino, è stato trovato morto: ucciso con modalità che a prima vista appaiono inesplicabili, e addirittura insensate. Montalbano indaga sui segreti impenetrabili di una famiglia e sui misteri di una comunità. Sui rapporti di sangue e quelli di affinità. Entra nei recessi e nei meandri di tante vite private. Fa i conti con sensazioni equivoche, desolazioni, e disperate tenerezze. Incontra figuranti di sofisticata semplicità o di apatica frigidezza. Va alla ricerca di un testamento annunciato e paventato, ma che forse non c’è. Montalbano ha davanti un muro di buio, dietro il quale avverte qualcosa di terribile che lo spaventa. Si lascia risucchiare da un abisso, lungo una linea di faglia che gli dà le vertigini. Confinato nella sua solitudine, sente con trepidazione che il momento della verità si approssima. Aguzza l’ingegno. Ma il suo sguardo è tutt’altro che spietato. Compassionevole, il commissario raccoglie dalla divina foresta di Rousseau il Doganiere l’eco ancora riascoltabile di una aerea nota. E, senza prurigini, ha rispetto per il vero pudore: per la nudità, alla fine, di chi non è innocente e non è del tutto colpevole. Chiude il caso tragico, pietosamente: con dolorosa malinconia. Non dà voti di condotta. Dal dramma Hedda Gablerdi Ibsen ha imparato a sondare le psicologie controverse. E dal film Il cattivo tenente di Abel Ferrara ha appreso la forza della comprensione. Camilleri lascia che la sua scrittura pulsi di tutto un inventario di inquietudini letterarie e cinematografiche, e di atavici spaventi. Scrive un romanzo di solido impianto, su colpe che raggelano quanto il terrore gorgonico in una tragedia greca.