di Andrea Camilleri
«Penso che il caso sia unico nella storia giudiziaria italiana pur così pesante di capitoli sciagurati» (Umberto Terracini).
Raffadali, provincia di Agrigento, anni Venti del Novecento. I fratelli Sacco sono uomini liberi, di idee socialiste, hanno il senso dello Stato, si sono fatti da sé seguendo l’esempio del padre Luigi che li ha allevati nella cultura del lavoro e del rispetto degli altri. La vita cambia quando una mattina il capofamiglia riceve una lettera anonima, poi un’altra, poi subisce un tentativo di furto. Luigi Sacco denunzia le richieste estortive ai carabinieri, che però si trovano disorientati: nessuno in paese ha mai osato denunziare la mafia. Da quel momento i Sacco dovranno difendersi. Dalla mafia e dalle forze dell’ordine, dai paesani complici, dai traditori, dai maggiorenti del paese tra tentativi di omicidio, accuse false, testimonianze bugiarde.
«Ma c’era la mafia» – «Eccome, se c’era!»: a chiusura di capitolo e, a seguire, subito dopo, ad apertura di capitolo, come in una ntruccatura, in una concatenazione tra ottave siciliane. La sensazione è quella di una voce che racconta, sgraffiando le parole nell’aria e modulandole alla maniera di un cantastorie che, sul prospetto di un cartellone dipinto, va narrativizzando, riquadro dopo riquadro, la declamazione larga e sonora della vicenda. Ed è dentro questa simulazione di un genere popolare che si aggiorna il modello giudiziario della manzoniana Storia della Colonna Infame, con il suo andar contro le inchiostrature del romanzesco e porsi dietro il dorso delle cose, mescolando racconto e riflessione, dettagli e postille critiche: sempre stringendosi ai fatti, interrogando le contraddizioni dei «documenti», siano essi forniti dalle confessioni estorte con i ricatti e le violenze, dalle deposizioni dei presunti testimoni, da un memoriale, o dai risultati processuali; nella convinzione che la verità sfugge dietro l’angolo e viene affatturata dagli accusati che si fanno accusatori, dai causidici, dai metodi d’indagine talvolta barbarici, dal disporsi della giustizia da una parte e della politica dalla parte opposta.
Costante è, in questo racconto reale, il paesaggio di una Sicilia rurale: le pietraie, le fratte rocciose, i pascoli; la magia botanica dei pistacchieti con i loro fiori unisessuali, le promesse di notti arabe del sambuco che tra le foglie nasconde le cantaridi, le cantilene degli stagionali che hanno già attraversato le scene «campestri» di Pirandello. All’inizio, nel secondo Ottocento, c’è il patriarca Luigi Sacco, bracciante d’ingegno e passione. Vengono poi i discendenti, grandi lavoratori tutti, e socialisti, tra emigrazione transoceanica e chiamata alle armi nella Grande Guerra, malversazioni e canaglierie di rozzi capimafia con alle spalle pupari altolocati, che prosperano nella latitanza dello Stato e sanno come avvantaggiarsi nella tragica notte del fascismo, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori (e grazie ad esso, anzi) che seppe abbattersi anche sui comuni oppositori politici. I cinque fratelli Sacco conoscono la disperazione a vivere in un regime di mafia. Si danno alla latitanza. Si sentono investiti di un ruolo di supplenza nella lotta (armata) contro i persecutori mafiosi. Diventano giustizieri solitari, nel silenzio ottuso dell’omertà: cittadini eslègi di uno Stato che non ha saputo garantirli. Vengono arrestati, processati, e inventati come «banditi» e predoni d’assalto. In carcere conoscono l’antifascismo. Incontrano Umberto Terracini e incrociano Gramsci.
Il succo della storia, di questo western nostrano di onest’uomini indotti e costretti a farsi vendicatori, è di declinazione manzoniana: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi». Salvatore Silvano Nigro