di Andrea Camilleri
Sognando, Montalbano è entrato in un sogno dipinto da Rousseau il Doganiere. Si è ritrovato, insieme alla fidanzata Livia, nel respiro di luce e nella convivenza innocente di un’edenica foresta. Gli intrusi riconoscono il luogo solo grazie a un cartello inciso a fuoco. Sono nudi. Ma portano addosso l’ipocrisia di foglie di fico posticce, fatte di plastica. L’armonia dell’eden, la sua mancanza di volgarità e violenza, è una finzione pittorica. Non appartiene a nessun luogo reale. E neppure ai sogni. Ciononostante, anche nella cieca e brutale realtà può sopravvivere la delicatezza del canto discreto e cortese di un uccello del paradiso saltato giù dai rami dipinti o sognati. Montalbano viene svegliato dal fischiettare di un garbato vagabondo che intona Il cielo in una stanza, con «alberi infiniti», imponendosi sul fracasso di un temporale.
La filologia congetturale del commissario deve applicarsi al fondo torbido e malsano di esistenze nascoste e incarognite dal malamore, dagli abusi e dalle sopraffazioni, dalla crudeltà e dalla sordidezza, dalle ritorsioni e dai ricatti, dalla gelosia e dal rancore: non meno che dall’interesse. Il ragioniere Cosimo Barletta, sciupafemmine compulsivo e strozzino, è stato trovato morto: ucciso con modalità che a prima vista appaiono inesplicabili, e addirittura insensate. Montalbano indaga sui segreti impenetrabili di una famiglia e sui misteri di una comunità. Sui rapporti di sangue e quelli di affinità. Entra nei recessi e nei meandri di tante vite private. Fa i conti con sensazioni equivoche, desolazioni, e disperate tenerezze. Incontra figuranti di sofisticata semplicità o di apatica frigidezza. Va alla ricerca di un testamento annunciato e paventato, ma che forse non c’è. Montalbano ha davanti un muro di buio, dietro il quale avverte qualcosa di terribile che lo spaventa. Si lascia risucchiare da un abisso, lungo una linea di faglia che gli dà le vertigini. Confinato nella sua solitudine, sente con trepidazione che il momento della verità si approssima. Aguzza l’ingegno. Ma il suo sguardo è tutt’altro che spietato. Compassionevole, il commissario raccoglie dalla divina foresta di Rousseau il Doganiere l’eco ancora riascoltabile di una aerea nota. E, senza prurigini, ha rispetto per il vero pudore: per la nudità, alla fine, di chi non è innocente e non è del tutto colpevole. Chiude il caso tragico, pietosamente: con dolorosa malinconia. Non dà voti di condotta. Dal dramma Hedda Gablerdi Ibsen ha imparato a sondare le psicologie controverse. E dal film Il cattivo tenente di Abel Ferrara ha appreso la forza della comprensione. Camilleri lascia che la sua scrittura pulsi di tutto un inventario di inquietudini letterarie e cinematografiche, e di atavici spaventi. Scrive un romanzo di solido impianto, su colpe che raggelano quanto il terrore gorgonico in una tragedia greca.